LO JUS PRIMAE NOCTIS ED IL POZZO DELLE VERGINI

Proprio nella parte più a nord della città, ove oggi si snoda Via Umberto I, sul ciglio della cosiddetta Scarpaccia, sorge ancora, a mò di bastione, la «Caserma Vecchia», così come ancora è denominato dai più anziani, un austero e al tempo stesso misterioso, complesso architettonico.
Da ragazzi, insieme ad altri coetanei, quando nella parte superiore del «mastio», sulla piazzetta Santo Stefano, fun¬zionava ancora un antico frantoio, avevamo quasi timore ad inoltrarci nei suoi androni e bui corridoi e dove la eco di no¬stre gioiose voci si trasformava in lugubri rimbombi evocanti arcane grida dell'aldilà
Quell'inconscia paura ci proveniva da racconti dei grandi che descrivevano «la Caserma Vecchia» come un luogo ove, molto tempo prima, si celebravano misteriosi riti soffusi di un esoterico misticismo paganeggiante.
Solo quando la nostra adulta volizione intellettuale ci per¬mette di razíonalizzare certe voci leggendarie ci accorgiamo che un fondamento storico esse hanno, e che indagini analiti¬che ci permettono di formulare sempre una sintesi logica delle «voci» stesse.
Ed è questo il caso della Caserma Vecchia ove il pozzo delle Vergini avvalora di storia certi presupposti popolari.
Prima di inoltrarci nel nostro racconto è bene offrire al lettore qualche cenno storico sulla nostra città, allora Anticoli di Campagna, che fu, come afferma il compianto Luigi Alonzi,
castellania della Chiesa al suo affacciarsi alla storia stessa e poi fu feudo di più famiglie gentilizie.
Al consolidarsi del Ducato romano, sin dal secolo VIII, Articoli di Campagna aveva l'obbligo di estinguere alla Camera Apostolica un debito, rinnovantesi ogni anno, di L. placentas in festa Nativitatis; doveva, cioè soddisfare ad un canone misto, statuito in cinquanta prosciutti, venti soldi e cinquanta- schiacciate all'olio nei giorni di Natale.
In una carta del 1248 appare ancora alle dirette dipenden-ze della Santa Sede, benché nella realtà della universitas si inserisce la presenza attiva di alcuni condomini, come quell'Amatone di cui il documento fa parola.
Auticoli di Campagna si presenta come un feudo collettivo, un patrimonio di più signori. Quasi una novità per quanto non diverso, nel medioevo, da altri noti castelli quali Frosinone, Bauco, Vico, Pofi e Ripi situati a sud di Roma.
Immutata la situazione del secolo XV, gli homines di Anticoli e cioé i condomini, seguitano ad essere presenti coi loro diritti e privilegi, mentre nel clima romito della piccola co-munità si avverte l'esigenza di nuovi istituti giuridici e di nuove franchigie.
Papa Martino V, Oddone Colonna, nel 1421 conferma agli anticolani i privilegi concessi dal suo predecessore Gregorio XI ma nel contempo si adopera perché venga a cessare o si attenui, la lotta che li divide in fazioni: quella dei cavalieri, aventi privilegi forensi, dei familia papae, cioè persone auto-rizzate a portare armi, e dei populares.
Dal 1478 e per circa sei anni il castello fu dato in pegno dà Sisto IV al Cardinale Estonteville; Alessandro VI lo conce-dette ad Ascanio Sforza nel 1492, poi a Lucrezia sua figlia, indi a Cesare e, finalmente, a Giovanni Borgia, suo nipote, che lo tenne essendo ancora fanciullo sino alla morte del nonno.
E 12 giugno 1513 papa Leone X concesse gli Statuti alla comunità anticolana, dopo che Giulio II, otto anni avanti, ne aveva confermato gli antichi privilegi.
Fu venduto di lì a non molto a Prospero Colonna nello strumento con data 22 giugno 1517, tale Giovanni Morgani cede il castello «che suo padre aveva avuto in enfiteusi dal papa» per rimanere poi ai Colonnesi, salvo breve interruzione dovuta a confisca da parte di Paolo IV, nella quale Articoli di Campagna passò ai Carafa (1556 - 1562.
Tornò ai Colonna nel 1562 sotto il pontificato di Pio IV per essere poi definitivamente assegnato in perpetuo a Marcantonio Colonna nel 1571, quale dono per la vittoria sui turchi a Lepanto.
Da questo breve exursus storico si evincono tutte le vicis-situdini alle quali dovette sottostare il feudo Anticolano in cui i populares - villici e servitori della gleba - rappresentavano gli strumenti del vivere felice e prepotente dei vari signori i quali, in un momento di vera aberrazione umana e sociale, giunsero perfino a stabilire l'ignobile “Jus primae noctis”.
Era un «diritto» questo che ormai i poveri populares avevano passivamente subìto fino al punto che alcuni lo accomuna-vano ad un lieto donativo al Signore, producente a loro stessi piacere, «il piacere di donare».
Ma non tutti certamente erano propensi ad essere supinamente ubbidienti, i quali, di fronte all'inevitabilità del dirit-to del Signore, giungevano a consumare loro stessi il matri-monio qualche tempo prima della ufficiale celebrazione del rito onde offrire al signorotto una sposa non più vergine.
Mentre tale «éscamotage» da molti signori poteva essere sop-portato, non fu certamente tollerato dal Barone Ascanio Morgani il quale pretendeva l'illibatezza assoluta nell'esercitare, il suo diritto.
Ecco allora, fin dalla sua fasulla prima esperienza, reagire risolutamente contro la povera giovane che «ob torto collo» era oggetto delle sue libidini, fino al punto di usare le armi ed ucciderla per l'affronto patito.
Come ciò non bastasse, proprio in previsione di altre disub¬bidienze, fece allora costruire nel castello un profondo pozzo, che ancora esiste; sul fondo del quale e lungo le stesse pareti erano conficcati acuminati pugnali, onde fosse questo il luogo ove sarebbero' finite le fanciulle non più integre.
Purtroppo nel famigerato pozzo finirono la loro esistenza molte fanciulle solo ree di aver amato, prima del Signore, ì loro giovani promessi sposi.
Strana e orribile punizione questa del barone Morgani, il quale, inconsapevolmente, ripeteva nella sua frustrazione ses¬suale un ancor più antico rito dei Maya i quali a Chichen Itza nello Yucatan, avevano il pozzo sacro, scoperto dall'ar¬cheologo Herbert Thompson, ove sacrificavano giovani vergi¬ni ad una misteriosa divinità preposta alla pioggia, all'irrora¬zione dei campi ed alla fertilità.
In ambedue i casi il pozzo sacrificale inghiottiva giovani vergini che differenti divinità ne bramavano concupiscenti il sacrificio-, ma in quello dei Maya vi era almeno una mistica perversione nata all'insegna della fertilità della Terra Madre, in quello del barone Morgani vi era la sola perversa aber¬razione carnale con sadismo «ante litteram».
Dopo che alcune donzelle non erano più uscite dal castello una grande paura aveva attanagliato i poveri villici anticolanì ed in silenzio piangevano la morte delle loro adorate figliole ed ognuno in cuor suo si augurava di non aver più una figlia da marito, ma ahimè da che mondo è mondo l'amore, pur di fronte alla morte, nasce e cresce spontaneamente nei cuori umani.
E così anche per Gioconda Terrinoni ed Elvezio Maggi era ormai giunta l'ora del loro matrimonio, un momento questo lungamente sognato e, al tempo stesso, pavidamente temuto al pensiero del signore.
«Non preoccuparti» continuava a dire la madre Mariuccia alla figlia Gioconda. Era, Mariuccia, una di quelle donnette piene di immaginazione e di forza spirituale che spesso rappresentano delle eccezioni dei tempi, anche in quegli evi pieni di ignoranza e di terrore Non per niente Mariuccia era rimasta vedova in età ancor giovane e non era più passata in seconde nozze reputandosi capace di far fronte da sola alle esigenze esistenziali sue e della figlia Gioconda.
Era in definitiva Mariuccia una di quelle persone che sa di preciso cosa fare, anche perché aveva imparato da sola a leggere e a scrivere e uno dei pochi libri e forse l'unico che possedeva, era la Sacra Bibbia.
Proprio dalla Bibbia le proveniva tutta quelle sicurezza che ispirava alla figlia poiché ben doveva conoscere quale inganno Lavano aveva messo in atto nei confronti di Giacobbe allorché gli condusse in sposa la figlia Lia al posto di Rachele che, per averla, il povero Giacobbe, dovette aspettare e lavo-rare per Lavano ancora sette anni.
Si era intorno ai primi anni del 1500, cioè in pieno Rinascimento, ma non certamente per Anticoli ove la dignità umana e personale simbolo dello spirito rinascimentale, era ancora, non dico da scoprire, ma dal pensarla e immaginarla minimamente.
Era ottobre, il mese delle uve e dei vini, il mese degli asprigni vapori sprigionantisi dalle umide ed ammuffite cantine del borgo anticolano e dalle quali giungevano lungo i vicoli i canti stentorei di pigiatoci euforici ed anche Elvezio pigiava e can¬tava; cantava soprattutto perché tra qualche giorno doveva pren¬dere in isposa Gioconda che, lieta, anch'essa cantava e raccoglie¬va il mosto dalle vasche. Gli amici li ammiravano e li compian¬gevano insieme, e non si rendevano conto della loro tranquilla e serena allegria ma, questo, lo sapeva solo mamma Mariuccia.
Ed ecco finalmente il gran giorno. Le nozze furono celebra- te in Santo Stefano nella cappella gentilizia annessa al castello baronale ed anche don Ascanio Mogani assistette al rito, anzi ne assolse le funzioni di «compare» ben pregustando la dolce preda che gli era destinata in serata.
Bella e raggiante era quel giorno Gioconda ed il suo volto, sotto il velo nuziale risplendeva veramente di luce, mentre le trine delle vesti davano al suo corpo una diafana opacità di suggestione sessuale agli occhi ebbri di don Ascanio.
Era d'uso che le giovani spose al calar della sera venissero accompagnate alla dimora del Signore direttamente dai padri o, in mancanza, da qualche parente, e così, anche Gioconda si apprestava ad assolvere all'ingrato dovere, quando mamma Mariuccia presala in disparte, le fa togliere le vesti nuziali che sveltamente indossa ella stessa, obbligando la figlia a ri¬manere nascosta in casa con Elvezio.
Mariuccia, quando lungo i vicoli del borgo brillavano le sole stelle in cielo ed unico chiarore era il tizzone, col velo sul volto, si fece accompagnare dal fratello Biagio fino al ca¬stello di don Ascanio, senza però aver prima nascosto sotto il corpetto di velluto cremisi un affilato stiletto.
Il barone ansioso trepidava in attesa nella sua tetra dimora a malapena rischiarata da fuliginose torce, quand'ecco «la dolce giovane» tutta avvolta in trine e veli che ne esaltavano il mistero di un corpo sodo e flessuoso pronto ad essere amato in una notte indimenticabile.
Mariuccia, ancor giovane, era sui trentotto, si fece prendere per mano da don Ascanio senza profferire parola e con arte evitò di togliersi il velo schernendosi e vezzeggiandosi e quando, finalmente, giunsero all'alcova pregò il suo Signore di spe-gnere il lume che fiocamente rischiarava lo stanzone disadorno.
Fu accontentata. Non solo, ma il barone dovette attendere che la mentita Gioconda si infilasse nel letto nel quale anche lui vi si tuffò ebbro di libidine ormai giunta al parossismo, ad un limite in cui l'uomo abbandona l'umano per ren-dersi bestia. Era questa certamente la condizione che pre-feriva Mariuccia, la quale aveva già impugnato fortemente lo stiletto che, quasi con dolcezza entrò nel cuore di don Ascanio Morgani riempiendo così di sangue l'ultimo suo ghigno di signorotto prepotente.
Mariuccia, furtivamente, così come era entrata, lasciò il castello raggiungendo la sua dolce casa ove Gioconda ed Elvezio felici e trepidanti trascorrevano le loro prime ore di vita coniugale.
Le trine rosse di sangue, il viso sconvolto di Mariuccia suggerirono allora con impulso spontaneo, la preghiera all’ altissimo perché proteggesse la loro pace familiare e allontanasse da loro la ritorsione vendicativa dei bravi del barone.
Le preghiere, come sempre estremo rimedio, soffusero di serena rassegnazione e di fiduciosa attesa i tre poveri cristiani tanto à vero che il giorno dopo, quasi un miracolo, le campane suonarono mesti rintocchi annunciando la «morte naturale» di don Ascanio perchè in fondo questa era la morte che la stessa moglie- Ginevra e i figli Fiermonte, Geltrude e Giangiotto temevano ma si auguravano per il loro perverso con¬giunto.
Oggi, a distanza di quasi cinque secoli, il pugnale di Mariuc¬cia fa riecheggiare un'eco espressiva di antesignana libertà come ad affermare il bisogno insopprimibile dello spirito umano ad esprimere autenticamente la propria persona, fa¬cendo fuggire definitivamente l'ombra diabolica e prepotente di don Ascanio con il suo retaggio schiavistico di oppressione.
Non c'è che dire! Certi messaggi emblematici giunti alle istanze ed alle menti moderne da foschi episodi e da pozzi sacrificali, si trasformano oggidì in razionalizzazioni commerciali, tanto da far adattare la “caserma vecchia” in funzionale ristorante e night-elub ( non più attivo dagli anni 80) in cui la musica psichedelica possa es¬sere il simbolo di un rinnovato modo di concepire la libertà e la stessa denominazione del ritrovo: «Pozzo delle Vergini» possa suggerire nostalgici rimpianti di perdute integrità di que¬sto nostro mondo che corre, con la scusa della libertà, verso la sua completa alienazione.
CARLO D'AMICO

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